La lavorazione del terreno

on Aprile 20 | in Orto Biodinamico | by | with No Comments

di Luca Michieletto

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La qualità della produzione e la quantità di prodotto, in un’azienda biologica, derivano direttamente dalla fertilità del terreno. La fertilità del terreno dipende dalla sua gestione e dalle lavorazioni che sono svolte.
Le condizioni pedologiche di partenza (ovvero le caratteristiche strutturali del terreno) sono molto importanti per ottenere buone produzioni con continuità anche in condizioni climatiche difficili, ma la gestione del terreno stesso e delle sue lavorazioni possono rapidamente peggiorare, o lentamente migliorare nella migliore delle ipotesi, tali caratteristiche.

I terreni della pianura Padana fino a poco più di cinquant’anni fa, ad esempio, possedevano una quantità di sostanza organica (e quindi di fertilità e vitalità) che si aggirava su percentuali intorno al 3-4%. Oggi i terreni più ricchi di sostanza organica coltivati con metodo intensivo presentano alle analisi quantitativi che raramente superano lo 0,3%.

Sicuramente risulta importante disporre di terreni ricchi di sostanza organica e ben strutturati. Questi terreni risultano soffici, dotati di buona umidità anche dopo periodi di siccità, profumati (i terreni maleodoranti indicano la presenza di fenomeni di putrefazione legati a mancanza di ossigeno) e di buona grana (anche se bagnati si sgranano facilmente rivelando la loro struttura glomerulare). Purtroppo non capita spesso di trovarsi di fronte a questi terreni che si incontrano generalmente solo dopo anni di non coltivazione o dopo una gestione particolarmente attenta.
I metodi per mantenere o ripristinare nel lungo periodo queste condizioni si basano essenzialmente sul rispetto dei cicli naturali e sulla riduzione dell’intensità delle lavorazioni. Occorre inoltre precisare che la struttura del terreno non si migliora solo attraverso le lavorazioni ma anche grazie all’attivazione di pratiche migliorative, come, ad esempio, il sovescio, di cui parleremo in un prossimo numero.
L’aratura, metodo utilizzato grazie alla trazione animale praticamente sin dalla nascita dell’agricoltura, è oggi sotto accusa dopo che ne è stata drasticamente modificata la tecnologia applicativa e si è impennato il consumo energetico. L’aratura «nativa», infatti, consisteva nella rottura della crosta superficiale e nella creazione di una fessura verticale nel terreno della profondità di 20-30 cm creando al contempo lo spostamento della fascia di terreno circostante al passaggio dell’attrezzo. Dal momento in cui è stata applicata una forza motrice a motore per le lavorazioni, alla fessurazione verticale del terreno è stato abbinato un rivoltamento della zolla. Tale operazione è positiva, se svolta con razionalità, ma generalmente viene effettuata portando lo strato fertile e vitale del terreno a profondità elevate, dove i processi vitali, inibiti dall’assenza di ossigeno, si bloccano, creando contemporaneamente una suola di lavorazione (indurimento della porzione di terreno sul quale scorre la lama orizzontale dell’aratro, che impedisce l’accumulo ed il passaggio di aria e acqua).

All’aratura, che purtroppo viene svolta anche quando il terreno non si trova in condizioni di «tempera» (ovvero quando è nelle migliori condizioni possibili in un corretto rapporto secco-umido), si abbina generalmente una lavorazione, resa necessaria da questa condizione non perfetta, per sminuzzare l’eccessiva zollosità provocata: la fresatura. Questa viene effettuata con lame rotanti su un asse orizzontale o su assi verticali e comporta una rottura della struttura di base del terreno, un’eccessiva polverizzazione dello stesso ed un conseguente «impaccamento» della parte superficiale del suolo.

Sempre più frequentemente nel corso degli ultimi anni, rispetto a queste attrezzature, si riscontra la maggiore presenza di strumenti che preservano la struttura del terreno e, in seconda battuta, richiedono un dispendio energetico inferiore. Se un terreno viene gestito adeguatamente, infatti, la richiesta di lavorazioni è notevolmente ridotta grazie alla formazione di una struttura omogenea e di glomeruli più o meno grossolani che trattengono l’acqua (facendo al contempo scorrere quella in eccesso), consentono un adeguato passaggio di aria, sono penetrati con facilità dalle radici dei vegetali, si disgregano rapidamente al passaggio di attrezzi leggeri.
Parliamo quindi di lavorazioni fatte in «doppio strato» con l’associazione tra lavorazioni profonde che comportano il passaggio di un attrezzo verticale a fessurare in profondità (tra 50 e 70 cm) lo strato coltivabile, e lavorazioni più superficiali ottenute con attrezzi che, con elementi distanti tra loro tra i 10 e i 30 cm, fessurano il terreno a una profondità minore (tra i 20 ed i 30 cm) e, trovando un terreno leggero, garantiscono la rottura delle zolle e la formazione di un uno strato coltivabile soffice e ricco di porosità.

L’aratura, effettuata non più tutti gli anni, ma solo nel caso in cui sia necessaria per portare in profondità eventuali residui culturali od un’eccessiva presenza di semi di infestanti, viene fatta su un terreno smosso più profondamente e non provoca la formazione della suola di coltivazione. Si ottiene così uno strato fertile profondo, dai 40 ai 60 cm, in grado di immagazzinare acqua, favorire il passaggio di aria e la penetrazione delle radici per consentire una crescita veloce e produttiva da parte dei vegetali coltivati.

In alternativa all’aratro e ad altri attrezzi, si trovano le vangatrici oppure le dischiere, che permettono il rivoltamento superficiale del terreno senza la formazione di suola di lavorazione. Al posto delle fresatrici, si utilizzano strumenti con spuntoni verticali che vanno più o meno in profondità e consentono lo sminuzzamento della parte superficiale del terreno per renderla adatta alle semine od ai trapianti.
Allo stesso modo, una volta messa in coltivazione una specie vegetale, è possibile ricorrere ad attrezzi (le sarchiatrici) che frantumano la crosta che normalmente si forma utilizzando dei sarchi, che ripristinano l’ossigenazione e riducono l’evaporazione dell’acqua.
In alcune occasioni, come quest’anno così difficile per l’eccessiva piovosità, è utile passare tra le file delle coltivazioni con estirpatori o simili per fessurare in senso verticale il terreno fino a profondità di 20-30 cm al fine di aumentare il passaggio di aria, l’evaporazione dell’acqua ed il conseguente riscaldamento del terreno che, se troppo zuppo d’acqua, pone le piante in condizioni di stress difficilmente superabile senza perdite di produttività.
È importante porre adeguata attenzione anche alle macchine trattrici utilizzate, prediligendo mezzi leggeri e che comportino quindi un compattamento inferiore nel punto di passaggio delle ruote. Sicuramente utilizzando strumenti a basso impiego di energia si potranno prediligere mezzi meno potenti e più leggeri, lasciando alcune specifiche lavorazioni più impegnative come, ad esempio, la ripuntatura, a mezzi potenti e pesanti ricorrendo ai terzisti (costa meno richiedere saltuariamente il loro intervento piuttosto che mantenere in efficienza un mezzo sovradimensionato rispetto alle nostre reali esigenze).

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